martedì 28 giugno 2011

La fedeltà alla Patria e i parlamentari Leghisti

La fedeltà alla Patria e i parlamentari Leghisti

La lettera del Giorno
25 giugno 2011

L’europarlamentare Mario Borghezio, da Pontida, ha gridato il 19 giugno davanti alle telecamere di
Rai3: «Dell’Italia non mi frega un c… perché l’Italia per me non conta un c… Conta solo la Padania».
Le chiedo come sia possibile che malgrado le tanti leggi che affardellano l’Italia al punto da aver creato, caso unico in Europa, un ministero per la Semplificazione normativa, non ce ne sia una che preveda in tali casi l’immediata decadenza dal mandato.

Pierpaolo Merolla

Risponde Sergio Romano

Caro Merolla,
una legge simile a quella da lei invocata esisteva per il Parlamento del Regno dal 1882 ed era la pratica conseguenza di un articolo dello Statuto albertino in cui era scritto: «I Senatori e i Deputati, prima di essere ammessi all’esercizio delle loro funzioni, prestano il giuramento di essere fedeli al Re, di osservare lealmente lo Statuto e le leggi dello Stato, e di esercitare le loro funzioni col solo scopo del bene inseparabile del Re e della patria ».
 

Nel 1848, quando Carlo Alberto fece del Regno di Sardegna uno Stato costituzionale, quell’articolo parve perfettamente legittimo. Le sue tre parole principali “Re, Stato e patria” erano allora effettivamente, nella percezione generale, inseparabili.
La situazione cominciò a cambiare dopo l’Unità, quando sulla scena politica nazionale apparvero uomini che avevano sognato un’Italia repubblicana. Nel 1867 Carlo Cattaneo cedette alle insistenze degli amici e permise che il suo nome venisse inserito nelle liste dei candidati alla Camera. Ma quando giunse a Firenze (allora capitale del Regno), rifiutò di mettere piede a Palazzo Vecchio, sede del Parlamento, perché non voleva giurare fedeltà ai Savoia. Sei anni dopo, nel 1873, Felice Cavallotti, fondatore del Partito radicale, prestò giuramento, ma dopo avere contestato la validità dell’atto che gli veniva imposto. Lo stesso accadde nel caso di Andrea Costa, primo deputato socialista, eletto alla Camera nel 1882. Nel novembre di quell’anno, all’inizio della nuova legislatura, un deputato repubblicano, Giovanni Falleroni, aveva rifiutato di giurare ed era uscito dall’Aula.
Per tagliare corto e impedire che il fenomeno divenisse imbarazzante, il presidente del Consiglio Agostino Depretis, presentò alle Camere un progetto di legge che prevedeva la decadenza del mandato per i deputati che non avessero prestato giuramento entro due mesi dalla data della loro elezione. La legge fu approvata il 22 dicembre con 222 voti contro 45.
Da allora, caro Merolla, qualche centinaio di deputati italiani (repubblicani, socialisti, comunisti) hanno aggirato l’ostacolo giurando con riserva mentale. È questa probabilmente la ragione per cui il giuramento dei deputati non esiste più. Quando scrissero la carta fondamentale dello Stato, i costituenti vollero che il giuramento di fedeltà alla Repubblica venisse riservato al capo dello Stato, al presidente del Consiglio dei ministri e ai singoli ministri. Tornare al passato e prevedere la decadenza del mandato per i parlamentari «infedeli » sarebbe impossibile nel caso del Parlamento europeo e terribilmente anacronistico nel caso del Parlamento nazionale.
Ma accanto al giudizio dei tribunali esiste quello morale della pubblica opinione: che spero sarà, nel caso da lei segnalato, particolarmente severo.